Ucciso 17enne a Jenin, violenze dei coloni a Sheikh Jarrah

L’esercito israeliano arriva nella notte nel villaggio di Silat al-Harithiya per demolire la casa di un palestinese accusato di aver ucciso un colono. Negli scontri un ragazzino muore, colpito alla testa dai soldati. Intanto nel quartiere di Gerusalemme est il leader dell’estrema destra israeliana Ben Gvir si presenta per “aprire” un ufficio sulle terre di una famiglia minacciata di sgombero. Violenta repressione israeliana delle proteste palestinesi

Roma, 14 febbraio 2022, Nena News – Due giorni ad altissima tensione nei Territori palestinesi occupati. Ieri sera nel villaggio di Silat al-Harithiya, vicino Jenin, l’esercito israeliano ha ucciso un 17enne, Mohammad Akram Salah: colpito alla testa da un proiettile, è morto poco dopo. Altri 20 i palestinesi feriti, secondo l’agenzia palestinese Wafa.

Scontri erano iniziati nel villaggio con l’arrivo dei militari israeliani, pronti a demolire la casa di un uomo accusato di aver ucciso un colono.  L’esercito ha chiuso le entrate al villaggio e si è diretto all’abitazione di Muhammad Jaradat, già agli arresti, considerato il responsabile dell’omicidio di un colono di 25 anni, lo studente religioso Yehuda Dimentman, ucciso il 16 dicembre scorso durante un attacco alla sua auto vicino alla colonia di Homesh.

muhammad akram

Mohammad Akram Salah

Così ieri sera l’esercito è arrivato a Silat al-Harithiya con i bulldozer, per quella che il diritto internazionale considera una punizione collettiva, la demolizione della casa di famiglia. Secondo testimoni, durante gli scontri, ci sono stati scambi di colpi da arma da fuoco tra soldati e palestinesi, mentre alle ambulanze – riporta Mahmoud al-Saadi, responsabile del servizio di soccorso di Jenin – veniva impedito di portare via i feriti, colpiti con proiettili veri e di gomma.

Poco più tardi la casa di Jaradat è stata demolita con gli esplosivi. Più volte le organizzazioni per i diritti umani hanno condannato la pratica di distruzione delle abitazioni dei responsabili, veri e presunti, di atti violenti. Misura che, oltre ad essere una palese violazione del diritto internazionale, lo è anche di quello interno israeliano.

Nelle stesse ore a Sheikh Jarrah, quartiere palestinese di Gerusalemme est da anni nel mirino delle organizzazioni dei coloni e dello Stato israeliano, scoppiavano nuovi scontri a causa dell’aggressione combinata di polizia israeliana e coloni che si è accompagnata alla visita di Itamar Ben Gvir, politico di estrema destra, a capo di Sionismo Religioso. Ben Gvir si è presentato ieri a Sheikh Jarrah per aprire un suo ufficio nel quartiere, al fine – secondo le sue dichiarazioni – di “mostrare sostegno ai residenti ebrei”. 

“La vita degli ebrei non ha più valore”, aveva twittato poco prima di arrivare nel quartiere palestinese, per poi chiamare i suoi sostenitori sul posto che hanno ballato e cantato slogan anti-arabi. Già il giorno prima, decine di coloni avevano aggredito i palestinesi del quartiere con spray al peperoncino e poi lanciato pietre contro le case e le auto.

La tenda-ufficio è stata posta davanti alla casa dei Salem, una delle 28 famiglie palestinesi che rischiano lo sgombero a favore di un’organizzazione di coloni che rivendica la proprietà della terra.

Subito è scattata la protesta palestinese con la conseguente repressione: la polizia israeliana ha usato l’acqua chimica e i gas lacrimogeni per disperdere la folla, aggredito alcuni giornalisti e arrestato almeno 12 persone. Trentuno i feriti. Protesta anche l’Unione europea che in un tweet ha parlato di “provocazioni irresponsabili e atti di escalation in un’area sensibile”.

Continua, dunque, ad alzarsi la tensione in un quartiere divenuto simbolo delle politiche israeliane di trasferimento forzato della popolazione palestinese. A monte sta un’ingiustizia storica e legale: le case costruite a Sheikh Jarrah da famiglie palestinesi rifugiate del 1948, a cui sono stati tolti tutti i beni dal neonato Stato di Israele, secondo un accordo stipulato all’epoca dall’agenzia Onu Unrwa e la Giordania, sono da anni rivendicate da un’associazione di coloni, la Nahalat Shimon, secondo cui quelle terre erano di proprietà di famiglie ebree prima del 1948.

Sullo sfondo un doppio standard: ebrei possono reclamare eventuali proprietà possedute a Gerusalemme est prima della nascita dello Stato di Israele, ma i palestinesi rifugiati a cui le proprietà sono state confiscate dal neonato Stato non ne hanno alcun diritto. Nena News